Capita di accorgersi
Gaia Salvatori – Docente di Storia dell’Arte Contemporanea della seconda Università degli Studi di Napoli
Capita di accorgersi che fuori dalla culla rassicurante dell’amicizia, condita da sapori gustosi e calde atmosfere, ci siano altre poesie da scoprire; qualcosa di tenuto discretamente in disparte, ma vivo e ardente come la brace pronta a ridare anima al fuoco a un solo soffio di vento. È ciò che è accaduto con Antonio Corbo, fra un sorriso e una stretta di mano.
La corposa teoria di dipinti (legati fra loro da un filo sottile, anche se sciolto lentamente nel tempo) che mi si è presentata nel corso di questa scoperta, mi ha rievocato qualcosa di familiare ma non ancora conosciuto che, ripescando nella memoria, mi ha riportato alla mente alcuni momenti pregnanti della storia dell’arte del Novecento: Kate Kollwitz, Egon Schiele, Emil Nolde e poi Klee, Kupka, fino – incredibilmente – a Giulio Paolini.
L’attitudine dello storico a stabilire confronti, ritrovare analogie, rimandi, interpretazioni e riprese – consapevoli o non, da parte degli artefici – può risultare ridondante e deterministica quando ci si appresta a delineare solo dei tratti critici, ma è forse una strada possibile per scoprire proprio lo spessore di una ricerca e persino le sue potenzialità. “Tre volti ci guardano” – dice il titolo di uno dei disegni a china della sua prima produzione risalente agli anni ’60 – e non sono i soli. Molti anonimi ma incisivi “ritratti” di un’umanità mortificata (dalla fame, dalla guerra, dalla povertà o dalla solitudine) richiamano l’attenzione dell’osservatore quasi a pretenderne la partecipazione, la rinuncia all’indifferenza, e “ci guardano” ostentando “Disperazione”, “Angoscia e rassegnazione” o finanche esplicitamente “Gli orrori della guerra”, come recitano altri forti e taglienti disegni di quella prima fase di sperimentazione del segno. Ci guardano, appunto, un po’ come Giulio Paolini nel 1967 – con altri intenti, “concettuali” e “poveristi” – allorché ripropose la riproduzione di un ritratto del 1505 di Lorenzo Lotto in cui un giovane fissa negli occhi il suo stesso osservatore (ossia il pittore stesso) e rimanda – come è stato scritto «a un antico colloquio “a quattr’occhi” in cui sia il pittore, sia l’interlocutore sono spariti.
Ma l’osservatore rimane sempre, come un osservatore ideale illimitato». Il modello, in sostanza, «rifiuta la sua posizione di immobilità rispetto all’artista e da “osservato” diventa “osservatore” attivo» (Mirolla, 2002). In quegli anni però per Corbo, impegnato socialmente e politicamente a far valere le ragioni della classe operaia e sensibile ad ascoltare la voce della sofferenza, contava piuttosto la “presenza” concreta e umana dei dolori rappresentati in figura, fuori da ogni rimando concettuale. Un «dolore universale», forse – come qualcuno ha scritto commentando le prime esperienze del pittore molisano partecipe di collettive di artisti da intendere anche, per motivi di beneficenza, come “comunità allargate”– che travalica specifiche contingenze, ma che non smette mai di denunciare miserie e sofferenze, solo in certi casi provocate da calamità naturali e il più delle volte attribuibili ai mali della politica e della storia.
Fra gli anni ‘60 e ‘70 concentra, in sostanza, nel disegno e nella grafica tutta la carica accumulata dai toni marcatamente espressionistici che trova spazio, coerentemente, anche in una cospicua produzione applicata alla stampa di manifesti. Ma scopre anche soprattutto il paesaggio che rappresenta con ostinazione fino agli anni ‘90, portando i tratti grafici forti sempre più verso la semplificazione degli elementi figurativi e ricorrendo ormai anche alla pittura, in scorci e tagli arditi e in trasfigurazioni immaginarie.
«Il pianto è penetrato nella pietra», scriveva in una sua poesia: campo nel quale parallelamente al disegno e ai dipinti a olio o ad acquerello, mette alla prova la sua sensibilità.
E «fili di vita vissuta e fili di vite spezzate» si intrecciano con i giochi di linee dei «campi aperti al cielo», raccordando inestricabilmente scrittura e pittura. Van Gogh disegnava e scriveva nello stesso tempo, intersecando, in tante sue pagine, tratto grafico e parola convinto che l’uno e l’altra – come scrisse esplicitamente – fossero alla stessa stregua “interessanti” e “difficili”. Una consapevolezza, evidentemente, propria di molti, poi, nel Novecento. Un connubio in cui confluiscono sogni, speranze, aneliti, preghiere, invocazioni.
La presenza di alcuni quadri degli anni ‘90 alla mostra personale di Antonio Corbo, oggi aperta a Campobasso, aiuta a riallacciare “fili” e “linee” di allora con quelli di oggi, seppur in un orizzonte di ricerca totalmente cambiato. I nomi di Nolde e Klee, che avevo fatto all’inizio, ritornano in aiuto per inconsapevoli reminiscenze, lontane risonanze, guardando “Alba” (1992) come anche “Palude” (2009), laddove si percepisce una sottile coniugazione fra colori e linee scandita da sovrapposizioni, sequenze, palinsesti, di impressioni e memoria da cui scaturiscono vortici ed esigenza di ordine e razionalizzazione nello stesso tempo. D’altra parte “Appartenenza” e “Fotogrammi”, appartenenti alla produzione già dei primi anni del duemila, così come “Alberi verdi” e “Alberi blu” (2005), sono alle precedenti ricerche strettamente correlati. Ma c’è qualcosa di diverso che trapela e si fa strada, come la materia sul foglio, più libera e autonoma accompagnata dai solchi che il suo stesso cammino segna. Gli alberi verdi e blu nascono per estensione della colatura del colore che scorre lentamente sulla superficie prendendo forma, come i grumi materici che, ora di nuovo vorticosamente, ora, e ancora, trovando pace nella struttura delle fasce geometriche vistosamente d’oro o argento, si sviluppano in sovrapposizioni materiche per dare voce a un altro filone di interesse del pittore – nel quale si sta attualmente provando – quello della primordialità legata alla nascita dell’universo e alle diverse forme di vita. Un andare all’origine delle cose che mette alla prova la figurazione fino in certi casi ad annullarla e si affida, in chiave decisamente informale, alla materia e al segno nella loro travolgente autonomia. La figura così non è più un punto di partenza, ma un risultato, una scoperta, come nel “Cavallo” che prende forma, appunto, grazie e in seguito all’andamento della colatura accompagnata dalla mano sul foglio. Spesso il rimando figurale, naturale – che evidentemente non scompare mai dal quadro di riflessione di Corbo – è soprattutto nel titolo. Forse allora di nuovo le forme del quadro “ci guardano” e, in quanto osservatori, siamo chiamati a interrogarci sulla loro ragion d’essere lasciandoci andare a diversi rimandi e connessioni. Mi sembra, in definitiva, di risentire i versi di una sua poesia che, dedicata a “La Parola”, quasi come in una preghiera, supplica: «Servitevi di me, createmi, maltrattatemi nell’uso. Componetemi sempre…».
Silvia Valente
Osservare la pittura di Antonio Corbo nella sua totalità vuol dire attraversare un flusso creativo in continuo e incessante movimento, un viaggio emozionale denso e coinvolgente segnato trasversalmente dall’intuito visivo di un artista capace di rinnovarsi e rigenerarsi senza pause, offrendo una galleria di immagini pittoriche in continua evoluzione stilistica. E’ il forte senso di contemporaneità, dunque, il leitmotiv della sua pittura, le cui radici affondano consapevolmente in una ricerca costante e ostinata nella cultura del suo tempo, elementi distintivi di una attitudine spiccatamente avanguardistica capace, quindi, di trattenere prima e comunicare poi, i tratti evolutivi delle arti visive. Il suo percorso creativo appare puntellato da momenti espressivamente eloquenti, attimi dilatati di un pensiero artistico e ontologico in trasformazione perenne sulla scia di esperienze, visioni e ricerche in grado di condurlo verso la sperimentazione sempre nuova di materiali e tecniche pittoriche.
La sua produzione è segnata – seppur con fluidità – dall’accostamento a visioni/tematiche e stilemi ben riconoscibili che solcano confini profondi all’interno del suo personale percorso creativo; dagli esordi all’ultima fase della sua elaborazione artistica, Antonio Corbo traduce la realtà attraverso l’indagine, intima ed emotiva, di patrimoni iconografici e concettuali sempre nuovi: dalla figura al paesaggio, dalle opere di spiccata connotazione religiosa alle nature morte, dalle ponderazioni politiche alle verifiche astratte, fino alla poesia. La sua ricerca artistica trae ispirazione frequentemente dalle indagini condotte in campo culturale nei luoghi e nei tempi a lui contemporanei, un processo denso di riflessioni, ascolto e interrogativi tradotti dall’artista con metodo e progettualità. La sfera intimista ha condizionato la produzione pittorica fin dagli esordi della sua carriera e tale aspetto, a distanza di anni, non è mai stato tralasciato dall’artista anche in vista delle mutate traduzioni stilistiche.